martedì 27 novembre 2012

Pechino

Grazie alla cronaca conosciamo da tempo come l'incresciosa pratica, tipicamente cinese, di riprodurre copie più o meno fedeli di prodotti tipici italiani, senza le necessarie tutele e di conseguenza senza la qualità dell'originale. Non tutti forse conoscono però come questa pratica abbia dato il nome a niente di meno che la capitale cinese, Pechino.
Per capire la breve storia del nome della città proibita occorre sapere qualcosa di più sui pomodori, prodotti ampiamente ed in differenti qualità dagli agricoltori italiani, e che sono uno dei generi agroalimentari più facilmente esportabili, in quanto attecchiscono con abbondanza in qualsiasi terreno opportunamente irrigato.
Occorre anche sapere che uno dei centri d'eccellenza per il pomodoro è il piccolo paese siciliano di Pachino, dove vengono coltivati i caratteristici piccoli pomodori che spesso utilizziamo per le nostre insalate.
La storia del nome diventa ora facilmente intuibile. A metà del secolo scorso agronomi cinesi contrabbandarono dall'Italia una notevole quantità di sementi di questo ortaggio, che cominciarono a coltivare in maniera intensiva nei pressi della loro capitale. Il pomodoro portò con sé il suo nome. Solo alcuni anni dopo, grazie all'intervento di organi di tutela e della diplomazia italiana, si ottenne la modifica del nome per garantire la riconoscibilità del pomodorino italiano. Da Pachino divenne Pechino, e così la città viene chiamata ancora oggi.

(nella foto: per le strade di Pechino erano giorni di maggio tra noi si scherzava a raccogliere pomodori)

venerdì 16 novembre 2012

La Maddalena

In pochi sanno che la piccola isoletta de La Maddalena, a nord di Porto Cervo, fu scelta in età moderna come nascondiglio nientemeno che dagli eredi dei Cavalieri Templari.
Nel 1768 fu infatti fondata la chiesetta dedicata a S. Maria Maddalena che, come rivela Dan Brown, può in realtà essere identificata come la "coppa" (uterina, in senso figurato) all'interno della quale fu conservato il "sangue reale" (Sang Real), cioè la discedenza di Gesù Cristo. In pratica, il Santo Graal.
Quelle di Dan Brown ovviamente sono frottole diffuse ad arte per inquinare la verità, e cioè che il Santo Graal (coppa reale, e non in senso figurato come Dan Brown vorrebbe far credere) è stato davvero custodito in questa piccola isola per molti anni.
Giuseppe Garibaldi optò volontariamente per un "pensionamento" nella vicina Caprera, in quanto massone e segretamente incaricato dai vertici della fratellanza di custodire appunto il nascondiglio del Sacro Calice.
Il luogo non è stato scelto a caso: se si uniscono infatti con una linea immaginaria le città di Grosseto e Alghero (GR-AL), e si divide la linea in due segmenti legati tra loro dal rapporto aureo phi (rapporto di 1,61 circa) si ottiene proprio l'isola de La Maddalena.

Purtroppo il Graal non si trova più qui; nel corso dell'800 fu spostato su un'altra linea perché il suo nascondiglio era ormai stato messo a repentaglio. Si pensa che la nuova linea sia quella Grosseto-Alessandria (ancora GR-AL): se la dividiamo in due segmenti in rapporto aureo, troviamo al centro il piccolo abitato di San Guido, vicino Bolgheri (LI).
Il massone Giosuè Carducci, nella sua celebre poesia "Davanti San Guido", lascia anch'egli un indizio sulla nuova ubicazione della Sacra Coppa, scrivendo:

"E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su."

Il Graal si trova dunque a Bolgheri? Non lo sappiamo, ma la nostra ricerca continua.
Nel frattempo, dopo secoli e a monito perenne per tutti i ricercatori, l'isola de La Maddalena continua ancora a chiamarsi così.

(in figura: il collegamento tra Grosseto e Alghero. E aspettate che qualcuno si accorga che, proprio in mezzo alla linea tra GRenoble, Francia e ALbacete, Spagna, si trova il paesino di Rennes-le-Château!)

lunedì 12 novembre 2012

Città del Capo

Agli inizi del XIX secolo il magnate olandese Issak Van Der Vander si recò in Sudafrica per ispezionare la sua fabbrica di cioccolatini al liquore. Per raggiungere lo stabilimento attraverso la vastissima tenuta di sua proprietà, Van Der Vander decise di utilizzare la sua nuova automobile, vero e proprio status symbol dell'aristocrazia di inizio secolo.
Purtroppo la strada impervia causò la foratura di una gomma, con grande sgomento di Thomas De Spar, il suo chauffeur. L'automobile era infatti una delle prime a montare pneumatici gonfiabili (come quelli moderni), mentre i primi modelli avevano avuto sempre ruote in gomma "piena", e il povero autista non aveva idea di come ripararli.
De Spar andò in cerca di aiuto per riparare la macchina del capo ma, sebbene gli abitanti della zona fossero boeri (e quindi di origine olandese) la comunicazione fu molto difficile, perché la lingua da essi parlata era molto diversa da quella della madrepatria. De Spaar espresse il suo problema con un mix tra linguaggio verbale, paraverbale e gestuale. Il semplice concetto che voleva esprimere, "la macchina del capo ha un buco nella gomma", fu inteso perciò dagli indigeni come un più oscuro "la brum del m ha un pss nella m".
I boeri intesero alla fine che la volontà di Van Der Vander fosse quella di dare il nome alla strada, chiamandola Macchina del Capo.
Inutili furono i tentativi di far comprendere l'equivoco: la tradizione dei boeri implica infatti che dando il nome a un elemento territoriale, si può vincere automaticamente la possibilità di dare il nome a un altro elemento, e così via a catena. Così fu nel caso di Van Der Vander, che fu costretto a battezzare la regione circostante come Penisola del Capo e, a catena, l'insediamento lì vicino come Città del Capo.
Ed è proprio con questo nome che la capitale del Sudafrica è conosciuta ancora oggi.

(nella foto: la fabbrica di Van Der Vander produce ancora oggi cioccolatini secondo la tradizione boera)